RELAZIONE DI MAGGIORANZA ALLA PROPOSTA DI LEGGE N. 55  “Accesso al registro regionale delle dichiarazioni anticipate di trattamento sanitario (le DAT)”

Gentile Presidente e colleghi Consiglieri,
nella storia della medicina vengono descritte diverse fasi nella comprensione e nella attribuzione di significati all’esperienza della malattia e della morte. I quadri epistemologici di riferimento possono essere descritti secondo le classiche tre dimensioni: verticale, orizzontale e circolare, che ancora possiamo ritrovare nel “pensiero debole” ed inespresso del quotidiano di ciascuno di noi. 
La dimensione verticale e l’immagine dell’indemoniato: la malattia è una prova, un castigo che viene dal cielo a causa delle colpe nostre o dei nostri genitori, fino alla terza o quarta generazione; la sofferenza incomprensibile diviene accettabile come parte di un disegno imperscrutabile di dio; il malato in questi casi può essere ucciso (la rupe tarpea), esiliato (lazzaretto, manicomio), oppure può essere considerato sacro (shamani e comunicazione con il divino attraverso i comportamenti devianti o le allucinazioni). Ancora persiste in noi la dimensione verticale nella accettazione della sofferenza con scarsa attenzione alle cure palliative, con l’idea persistente fino agli anni 50 che i bambini piccoli potessero essere operati senza anestesia, con un nascosto sentimento di colpa nei confronti della malattia, della disabilità e della morte dei nostri cari…
La dimensione orizzontale e l’immagine dell’ospedale come luogo della riparazione attraverso azioni o farmaci che riportino alla normalità: la malattia va guarita, riparata, riportata alla normalità; ogni devianza (di comportamento, di valori ematochimici, di misure antropometriche) va ridotta alla media. Un concetto esasperato di cura come riparazione rischia di portare all’accanimento terapeutico, alla trasformazione in malati dei sani con valori ematochimici o parametri auxologici o comportamenti diversi dall’atteso. (Basta stabilire criteri di pressione arteriosa, o di glicemia, o di colesterolo un po’ più bassi di quanto accettato fino ad ora per trasformare una fascia di popolazione in quasi malati e possibili fruitori di farmaci). Le degenerazioni possono portare alla “medicina difensiva” in cui il medico o l’operatore attuano interventi medici, farmacologici, protesici, chirurgici anche non utili a garantire una guarigione dalla malattia o un miglioramento delle condizioni di salute ma che servono a salvaguardare l’operatore da possibili rivendicazioni da parte del paziente, delle assicurazioni, degli avvocati. 
La dimensione circolare e l’idea di complessità: segna il passaggio da una visione paternalistica ad una visione circolare del percorso di cura in cui medico/operatore/paziente/contesto sono una squadra coinvolta nelle scelte relative alla vita, alla “cure” e alla “care”; chi si occupa di salute interviene sui determinanti sociali di salute, si coinvolge nella promozione della salute e di stili di vita sani, nell’attenzione all’ambiente e alla prevenzione delle componenti ambientali e contestuali. Gli operatori sanitari accompagnano la persona, nel rispetto delle competenze, fornendo tutte le informazioni utili ma senza sostituirsi alla persona stessa nelle scelte relative alle cure che la riguardano; si prendono cura della persona con la sua malattia e non della malattia al di là della persona. In questa ottica nasce il concetto di consenso informato alla cura, ed in particolare il consenso informato in caso di interventi terapeutici invasivi. Il consenso informato va richiesto a tutti, nelle modalità comunicative adeguate all’età, alle condizioni di vita, alle competenze comunicative (quindi anche ai bambini, alle persone con ritardo cognitivo, alle persone con disturbi della comunicazione, a quanti non sono più in grado di esprimere a parole le proprie volontà). Operatori e servizi infine non pretendono di negare la presenza della morte o di considerare la morte solo come fallimento delle cure, ma accompagnano la persona nel suo percorso di vita che comprende anche la morte.
Non confondere le Dichiarazioni Anticipate di Trattamento con l’eutanasia: E’ necessario porre attenzione a non confondere il tema delle dichiarazioni anticipate di trattamento, il tema della definizione dei LEA per le cure nel percorso di fine vita ed il tema relativo ad eutanasia attiva e passiva.  Il mondo cattolico in particolare appare particolarmente timoroso nell’affrontare questo tema per il possibile rischio percepito di “autorizzare” sospensioni di cure che possano trasformarsi in forme di eutanasia passiva e di mancato rispetto della sacralità della vita”. Questo timore coglie peraltro inevitabilmente ciascuno di noi nel momento in cui ci approcciamo al mistero della morte, alla necessità di garantire dignità e rispetto ad ogni persona in ogni fase della vita. Ma la opportunità/possibilità di riportare su un documento le proprie dichiarazioni anticipate di trattamento non ha nulla a che vedere con l’eutanasia. Come in tutto il percorso di vita è richiesto il consenso informato per qualsiasi intervento invasivo, così è rispettoso e dignitoso riconoscere alla persona di poter esprimere il proprio volere per quanto la riguarda anche nelle fasi di maggiore fragilità e nel percorso di fine vita.
Non esplicito di nuovo, a seguito della relazione del consigliere Pustetto, quanto descritto nella proposta di legge e le norme nazionali a cui la stessa fa riferimento. Per chiarire eventuali dubbi riprendo invece in particolare quanto è scritto nel Catechismo della Chiesa Cattolica, nelle versioni dal 1889 al 1992: “L’interruzione di procedure mediche onerose, pericolose, straordinarie o sproporzionate rispetto ai risultati attesi può essere legittima. In tal caso si ha la rinuncia all’accanimento terapeutico. Non si vuole così procurare la morte: si accetta di non poterla impedire. Le decisioni devono essere prese dal paziente, se ne ha la competenza e la capacità, o, altrimenti, da coloro che ne hanno legittimamente il diritto, rispettando sempre la ragionevole volontà e gli interessi legittimi del paziente.” 
La Congregazione per la Dottrina della Fede il 5 maggio del 1980 distingue tra mezzi proporzionati e sproporzionati alla cura: “… È anche lecito interrompere l'applicazione di tali mezzi, quando i risultati deludono le speranze riposte in essi. Ma nel prendere una decisione del genere si dovrà tener conto del giusto desiderio dell'ammalato e dei suoi familiari, nonché del parere di medici veramente competenti; costoro potranno senza dubbio giudicare meglio di ogni altro se l'investimento di strumenti e di personale è sproporzionato ai risultati prevedibili e se le tecniche messe in opera impongono al paziente sofferenze e disagi maggiori dei benefici che se ne possono trarre. … Il suo rifiuto non equivale al suicidio: significa piuttosto o semplice accettazione della condizione umana, o desiderio di evitare la messa in opera di un dispositivo medico sproporzionato ai risultati che si potrebbero sperare…”. 
La proposta di legge n. 55: la proposta che discutiamo oggi, presentata da Sel, a prima firma Pustetto, intende garantire ad ogni persona la possibilità di rendere esplicite le proprie volontà anche nella fase della vita in cui può essere più difficile o impossibile esprimerle direttamente. La legge offre la possibilità, non l’obbligo, di esprimere le proprie dichiarazioni anticipate relative ai trattamenti a cui si accetta di essere sottoposti. 
Il lavoro della Commissione ha portato ad aggiungere alla espressione delle proprie volontà relative ai possibili trattamenti sanitari anche le dichiarazioni relative alla possibilità di donazione post mortem di propri organi o tessuti. Questa opportunità permette di ottemperare in modo semplice ed efficace a quanto richiesto dalla legge 91 del 1999 che afferma che i cittadini (art 4, comma 1 e 2), ricevuta la richiesta di manifestazione delle proprie volontà e le adeguate informazioni, sono tenuti a dichiarare la propria libera volontà in ordine alla donazione di organi o di tessuti del proprio corpo successivamente alla morte. 

SILVANA CREMASCHI

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